venerdì 20 settembre 2013

LIVE AT "PIANISSIMO-LIBRI SULLA STRADA": IL VIDEO SU YOUTUBE

Non sono un grande attore, anzi, non sono proprio un attore. Né le mie "esibizioni" live hanno la potenza e causano il coinvolgimento (o lo sconvolgimento, dipende) di quelli rock. Il video sottostante mi vede protagonista di una lettura o, per meglio fare i fighetti cosmopoliti, sarebbe meglio definire "reading". Codesti "reading" a me causano forti dolori di pancia, perché dopo aver pubblicato vorrei sparire come Salinger, Mina o Battisti, eclissarmi nella parte oscura della luna; solo che io non sono Salinger, Mina o Battisti e quindi devo, giocoforza, mettermi un po' in mostra per quel poco che il buon senso suggerisce, onde far sapere ai miei lettori vecchi ma soprattutto nuovi che esiste - on line e nelle librerie - un mio nuovo romanzo. 
Eccomi quindi impegnato in una sofferta lettura di un brano tratto da "Se avessi previsto tutto questo". Sofferta per me, almeno, spero non troppo per gli spettatori. Grazie all'amico Daniele Scirpo per aver effettuato questa ripresa il 17 agosto (presso il Largo Aretusa) e grazie soprattutto allo staff di "Pianissimo-Libri sulla strada" (l'ideatore Filippo Nicosia ma anche Serena Casini, Mauro Maraschi e Maura Romeo) che dal 9 agosto al 2 settembre ha viaggiato per la Sicilia con un furgone d'epoca (credo alquanto scomodo) per promuovere i libri e la lettura. 




A seguire, riporto anche il brano in questione, da me sempre identificato come "il brano del cazzo", non tanto (o non solo) perché probabilmente non farà mai parte del fior fiore della letteratura italiana, quanto perché la suddetta sconcia - ma ormai desemantizzata - parola ricorre con una certa frequenza, grazie soprattutto a Mario, l'istruttore di una scuola guida della periferia siracusana...

"L’ingrato compito di addestrare Carlo, a suo tempo in difficoltà pure con la bicicletta, è toccato più di recente a un certo Mario, un ragazzo di ventiquattro anni con nelle vene più Aperol che sangue, capitano di un football club di periferia. 
Carlo attende il suo turno nella sala d’attesa della scuola guida. Mazzarone, fra un turno e l’altro, ha attraversato come un lampo la sala dicendo, con la stessa sicurezza nell’avvenire che può avere un detenuto nel braccio della morte: - Lei ce la farà, le assicuro che domani sarà la volta buona.
Mario si presenta con tre quarti d’ora di ritardo, brillo come al solito. Dice a Carlo e ad una ragazza che aspetta da neanche cinque minuti di salire sulla Ford e di aspettarlo, ché deve sbrigare un affare urgente al bar.
Carlo fa il cavaliere e permette alla ragazza di guidare per prima. Aspettando Mario, lei aggrappata al volante, lui nel sedile posteriore con le lunghe gambe malamente incastrate, si cerca di intavolare una conversazione.
- Mi chiamo Carlo.
- Roberta.
- Bel nome.
- Grazie.
Femmine. Non ricambiano mai con “anche il tuo è un bel nome”.
- È da molto che...
- No, da tre giorni.
- E come...
- Bene.
- Io invece...
- Ah, sì.
- Be’.
- Certo.
- Eh...
- La patente...
- Già.
- No, è che io...
- Cosa.
- Prego?
- No, dico, cosa?
- Cosa chi?
- A chi?
Pausa. Lei guarda lui attraverso lo specchietto retrovisore. Poi ritrae lo sguardo, come disgustata, neanche avesse visto uno shoggoth lovecraftiano.
- Frequenti per caso...?
- Macché.
- Davvero?
- Come no.
- E...
- Senti...
- Ebbene?
- Sì, sì, sì.
Mario interrompe l’idillio, catapultandosi dentro, avviando il motore, ingranando la marcia, tutto nell’arco di un decimo di secondo. La ragazza è squassata dalla confusione, spegne subito il motore, poi gratta l’innesto della seconda, fa urlare di terrore una vecchina rimasta inchiodata sulle strisce pedonali. Al primo senso unico a destra si fionda a sinistra, contromano, stoppata in netto ritardo dai doppi comandi di Mario, che già comincia a latrare come Eddie Murphy in 48 ore.
- Grandissima testa di cazzo, che cazzo fai, cazzo?
L’alcol ha spento i già deboli freni inibitori di Mario. Con la sinistra raddrizza il volante, con la destra si massaggia l’organo che tanto ama declamare ad alta voce. La ragazza non si è ancora abituata ai suoi modi da gentleman, lo guarda con panico crescente.
- E non tenere duro il volante, non è mica il cazzo del tuo fidanzato! - ringhia Mario.
- Non sono fidanzata - ribatte Roberta, con gli occhi inumiditi.
- Cazzo, e pensare che io per te lascerei la mia cazzo di moglie, i miei scazzati figli e quella cazzuta della mia amante.
Incredibile. Che Mario abbia una moglie, dei figli e persino un’amante. Il mondo è bello perché tutti hanno speranze.
Dopo venti minuti agghiaccianti è il turno di Carlo.
- Vediamo che cazzo mi combini oggi - dice Mario con il suo indiscusso garbo.
Carlo gira la chiavetta dell’accensione con il risultato di spegnere il motore, visto che Mario l’aveva appena acceso; poi Mario spinge la propria frizione e Carlo ingrana la marcia, idem per la seconda; quindi Mario pianta una frenata assurda in prossimità di una traversa e schiaccia la frizione mentre Carlo spinge l’acceleratore.
- Cazzo, guarda quella sventola, topa infinita, sì, vieni bella che ti faccio godere - urla Mario, in puro stato orgasmico, indicando una bionda in minigonna. Si produce in un “woooaaaooo” in falsetto. Poi si accorge di essere in prossimità di una chiesa e si fa il segno della croce.
- Fatti il segno della croce, cazzo - dice a Carlo.
Illuso.
- Sono agnostico - mormora Carlo.
- Cazzo sei? - sbigottisce Mario.
- Insomma, sei ateo? - dice Roberta. Per la serie: come attirare l’attenzione.
- Non credi in Dio? - Mario impallidisce. Almeno ha avuto il buon gusto di non infilare “Dio” e “cazzo” nella stessa frase.
- Non avendo prove sufficienti, non mi pongo il problema della sua esistenza.
Difficile elaborare una dottrina più articolata: per poco non avviene un impatto catastrofico contro un camion della nettezza urbana. Mario è troppo preso dalla questione teologica per badare al suo allievo.
- Non servono le prove, cazzo. La fede è la prova - sentenzia Mario.
- Io non ho fede - spara Carlo.
- Cazzo. Mi sconvolgi.
- Già.
- Credevo di averle viste tutte. Ma questa, cazzo...
- Eh, già.
- Tu devi avere grossi problemi familiari - dice Roberta. - Devi stare attento alla droga.
- Si comincia così e poi non si sa dove si va a finire - dice Mario. E aggiunge: - Cazzo.
- Alla mia parrocchia possono fare qualcosa per te - dice Roberta. E aggiunge: - Forse.
- No, grazie, affronterò da solo questo dramma - chiude Carlo, che sta tentando di concentrarsi sulla guida.
La ragazza sta per ribattere qualcosa ma Mario si impadronisce del volante, accosta l’auto, mette il freno a mano, spegne il motore, dice “aspettate in macchina, cazzo” e si fionda verso il bar più vicino. Carlo non ha ancora capito la dinamica della manovra. Il suo piede sinistro tiene ancora premuta la frizione. Roberta chiede:
- Ma è fuso, quello?
- Cazzo ne so - dice Carlo.

da "Se avessi previsto tutto questo", pp. 71-75.

martedì 17 settembre 2013

VERONICA, IL PRIMO AMORE DI CARLO PIRAS

La prima ragazza di cui Carlo credette di essersi innamorato si chiamava Veronica. Quarta elementare. Ora come ora non saprebbe neanche descriverla, ma era l’essere più aggraziato e perfetto che avesse mai visto. Era una ragazza, quasi una donna, non una bambina occhialuta, smilza e dalla voce chioccia come tutte le altre. Aveva già il seno e un paio di piccoli nei sopra le labbra, proprio piccoli. Carlo le parlava spesso ma senza dirle nulla di importante: per esempio, le faceva notare che il termine “veronica” era sul vocabolario con tre significati diversi, mentre “carlo” con l’iniziale minuscola non c’era e per questo lei contava molto più di lui. Oppure tentava di coinvolgerla nella compravendita delle figurine dei calciatori, gli mancava Platini, avrebbe dato qualunque cosa per avere Platini, “Lo sai che i tuoi capelli sono uguali ai capelli di Platini?” le diceva. Ogni tanto le offriva la merenda e lei rifiutava, sicché Carlo si sentiva un po’ rifiutato assieme alla sua merenda; forse era colpa della commessa della salumeria che ci aveva messo poco prosciutto nel panino, o era colpa di quelli che avevano confezionato la brioche, sì, certo, la commessa non ci aveva messo amore nel preparare il panino, men che meno i misteriosi individui della brioche. E allora si era fatto preparare i panini dalla mamma, che almeno lei di amore se ne intende, le mani della mamma trasudano amore, l’amore si trasmette, la donna comprende al volo l’amore, un panino farcito con amore fa innamorare chi lo mangia, e forse lo doveva fare lui, il panino; cominciò a farlo e mentre stendeva le fette di salume pensava a lei e ci metteva tanto e tanto amore. Ma lei rifiutava regolarmente. Alla fine se lo mangiava tutto lui e si rendeva conto che il suo amore restava chiuso dentro di sé, producendo peraltro impetuose scariche diarroiche. Passò del tempo, ne passò tanto; e lui si accorse con colpevole ritardo che lei non gli aveva mai parlato, che era stato sempre e solo lui a parlare, chiedere, mostrare, sorridere. E che lei parlava, chiedeva, mostrava, sorrideva a un altro ragazzo. 

Da "Se avessi previsto tutto questo" pp. 18-19.

lunedì 9 settembre 2013

UNA RECENSIONE SU "I LIBRI DI MORFEO-IL BLOG DI CHI AMA LEGGERE"

Su "I libri di Morfeo-Il blog di chi ama leggere" è apparsa una nuova recensione al mio romanzo a cura di Federica Orsida. Riporto il testo:


"Uno scorcio di vita nella Catania degli anni novanta, vista attraverso gli occhi di Carlo, studente di Filosofia, con le sue perplessità e drammi da diciottenne appena affacciato alla vita. Le lezioni universitarie lo lasciano perplesso e confuso, le vite degli amici lo sfiorano appena senza toccarlo completamente. Unico pensiero fisso nella testa di Carlo, la ricerca dell’amore. Perso nei suoi sogni confusi, tra pensieri proibiti sulle ragazze degli amici; ragazze strane conosciute in facoltà e una cugina trasgressiva, le giornate di Carlo procedono nel suo incostante ritmo. “Se avessi previsto tutto questo” di Luca Raimondi, edito da Edizioni il Foglio, rispecchia in pieno la vita negli anni novanta, quando i giovani, con diecimila lire nel portafogli, si sentivano ricchi. Carlo si reputa un ragazzo fortunato, ha una casa tutta sua vicino all’università e una vita che sembra soddisfargli, non per questo priva dei dubbi che accompagnano i diciottenni e con un rimprovero bonario verso i nonni che, a suo avviso, sono colpevoli di non avergli svelato il segreto che si cela dietro l’universo femminile. Tra dubbi, pensieri, relazioni mancate, notti insonne tormentati da sogni confusi, esami di patenti falliti, lo Scrittore Luca, ci narra, in maniera brillante e ironica, il percorso che conduce Carlo da ragazzo a uomo. Non senza qualche ironica traccia di autobiografia che rende il tutto più succoso e teatrale. Non senza qualche spunto di profonda riflessione: E se avessimo previsto tutto questo: quante cose ci saremmo risparmiati? Quanti errori non avremmo commesso? Quante strade non avremmo intrapreso? Quali decisioni avremmo preso? Se avessimo previsto tutto questo…"

lunedì 2 settembre 2013

"NIENT'ALTRO CHE UN SOGNO": LA PREFAZIONE DI FERNANDO GIOVIALE

Anche se la narrativa è la mia passione più grande, le soddisfazioni maggiori mi sono giunte grazie a un saggio scaturito da una mia tesi di laurea in Storia e Critica del Cinema, edito da Bastogi nel 2005 e intitolato "Nient'altro che un sogno-Pasolini e la Trilogia della vita". 
Il libro parte dagli ultimi istanti di vita di Pasolini e dalla sua “Abiura della Trilogia della vita”, per poi tornare a quando Pasolini iniziò a lavorare come sceneggiatore, approdando nel 1971 ad adattare il capolavoro di Boccaccio, quel “Decameron” popolare, sensuale, vitalistico, che sarebbe stato il primo capitolo di una trilogia (comprendente “I racconti di Canterbury” e “Il fiore delle Mille e una notte”) destinata a un enorme successo di pubblico e a un non sempre puntuale riconoscimento della critica.
Il libro è la ricostruzione “linguistica” del lungo viaggio che Pasolini verosimilmente intraprese per giungere alla creazione di quei tre film, resa possibile dalla pubblicazione delle sceneggiature originali. Sceneggiature che hanno svelato non pochi segreti e retroscena del “laboratorio” cinematografico di Pasolini.
Con grande prudenza, alla ricerca di un equilibrio tra leggibilità e scientificità, aiutato dalla mia esperienza di romanziere, di sceneggiatore e di regista, e sicuramente incoraggiato dal Premio Tindari 2004 per la critica cinematografica, nel trentennale della morte di Pasolini ho voluto riproporre problematiche antiche e fornire nuovi e suggestivi stimoli non solo per i pasoliniani della prima ora ma anche per coloro che volessero soltanto andare un po’ più in là nella conoscenza di questo grande poeta, scrittore e regista. 
Con particolare affetto ricordo la prefazione firmata dal docente Fernando Gioviale dell'Università di Catania, il principale responsabile della mia passione per Pasolini: nel mio ultimo romanzo non sono stato tenero con la casta dei professori catanesi, ma lui, Stefania Rimini (che bello il suo libro su Kieslowski edito da Liguori, "L'etica dello sguardo"), il suo amico e collega Antonio Di Grado e pochi, pochissimi altri tra docenti, assistenti e ricercatori, rimangono tra i miei migliori ricordi di quell'epoca legati al personale accademico. Voglio riproporre in questo blog il testo integrale della sua prefazione:

“Trilogia della vita”: sembra un tempo lontano e quasi favoloso, quello che vedeva Pasolini cimentarsi con tre opere somme dell’immaginario novellistico d’Occidente e d’Oriente, cavandone Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una notte (1974). E’ come se l’estremo cimento di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), maledettamente postumo, venisse a gettare un’ombra di mortuario raggelamento su quanto il regista aveva fatto prima, e segnatamente su quei tre film che, proprio perché così diversi, finivano con l’acquisire contorni remoti e fiabeschi. Un’età di possibile felicità inventiva e creativa, e forse esistenziale, tramontava con quei testi, testamenti provvisori destinati ad essere sopravanzati dal testamento definitivo. Non si trattava, in realtà, di testamenti; meno che mai per Salò, che occupava Pasolini in un 1975 tutt’altro che “ultimo”, se l’artista meditava, tra varie altre cose, un film con Eduardo De Filippo, mentre dedicava idee, energie, scrittura al megaromanzo Petrolio, concepito come un’autentica summa della sua opera e lasciato allo stato di ampio, articolato, ma pur sempre provvisorio frammento (pubblicato, con qualche azzardo, da Einaudi e confluito poi nei Meridiani Mondadori). Ma non dell’estremo cimento di Sodoma dobbiamo parlare: che per noi resta un alto impegno didattico di gelido sarcasmo dedicato ai giovani, metaforicamente còlti, allora, in travestimenti nazifascisti, più facilmente ravvisabili, oggi (ma puntualmente prefigurati dal Pasolini polemista e “luterano”), in una serpeggiante nevrosi di massa da cui sgorgano i mostri orrendi del quotidiano, i crimini dell’assurdo familiare: frutto, insieme, del dorato inferno consumistico e della falsa coscienza collettiva, quella che ama credere in un Occidente finalmente libero dalla minaccia comunista e dunque più sagace e sereno nel gestire le proprie forze: e perfino più devoto, più religioso!
            A Salò, d’altra parte, Pasolini era giunto “abiurando” dalla “Trilogia della vita”, ovvero rinnegandone i presupposti dopo averli lungamente evocati. Bisognava sgombrare il terreno, ormai, da ogni superstite terzomondismo come alibi morale dell’Occidente: il mito dei popoli vergini e lontani - fossero la Napoli poeticamente dilatata e riassunta nel Decameron, l’operosa e favoleggiata Inghilterra già di Chaucer, il labirintico oriente da mille e una notte - non era più praticabile; e Pasolini ancora non sapeva (o poteva solo intuirlo da situazioni più mature, come in Francia) che quell’Oriente già doratamente fiabesco si apprestava ad invadere un Occidente decrepito e senza voglia di sopravvivere, a ricolonizzarlo con le sue giovani energie di lavoro ma anche ad inquinarne l’orgoglio residuo e ad attizzarne fondi lungamente sopiti d’intolleranza. Questo discorso, a lui, pareva non importare: di più lo intrigava e turbava la troppo violenta contraddizione tra quei corpi innocenti di un mondo aurorale e precapitalistico (quello, appunto, sospeso tra una Napoli picaresca, pseudo-boccaccesca, e un Islam trionfante nella sua millenaria, a suo modo saggia alternanza di straripante ricchezza e collettiva miseria) e l’abbrutimento interiore che gli pareva di dover cogliere nell’appiattimento di un neocapitalismo del tutto privo d’anima, nell’omologazione imperante di una condizione giovanile munita di un benessere di massa senza precedenti, ma infine senza progetto, senza felicità. Per alcuni anni - quelli, “felici”, della trilogia - Pasolini s’era rifugiato nel mito solare dei corpi edonisticamente ritratti e contemplati; ma pure lì (vedi Canterbury) s’insinuava il tema misterioso della morte, e sulla morte, quella di un Occidente senza più razionalità morale, si risvegliava il furente, gelido, “umoristico” e amarissimo fustigatore di Salò.

            Non è detto che Luca Raimondi sia voluto partire da premesse siffatte, per scrivere il suo libro sulla “Trilogia della vita”; ma le aveva in qualche misura dentro, a volte con felice implicitezza, a volte con più ragionata motivazione; infatti il suo non vuol essere un discorso ideologico ma, piuttosto, linguistico, ovvero di piena comprensione dell’intero percorso di linguaggio che Pasolini compie in quei tre film. E tuttavia - come Raimondi ben sa - il linguaggio pasoliniano è un insieme sincretico di umori e idee, passioni e ragioni, improvvisazioni e riflessioni, per giungere a una forma che - discutibile sempre, ignorabile mai - si fa irresistibilmente sua: non condividessimo un solo passaggio di quelle storie raccontate (viceversa così dense di riposte o esibite arditezze espressive), ci resterebbe sempre l’indistinta consapevolezza che quel linguaggio è solo pasoliniano: irritante o irrestibile, è inconfondibilmente suo, invenzione fortunatamente impastata di immaginismo affabulatorio e di tensione raziocinante. Nella “Trilogia”, l’affabulazione prevale sul raziocinio, i colori sulle parole, la gioia sul dolore: è un altro Pasolini, a quello di prima e a quello ultimo inestricabilmente legato, ma qui felicemente coincidente in se stesso, di là dagli sbalzi di umore e di tenuta narrativa. Raimondi vi si è calato con candore smaliziato, con gusto del vedere e del raccontare; e ce ne restituisce un’immagine che, tra le mille proposteci in questi anni, non è la meno convincente. E poi, da narratore, ha cercato di farcela amare nell’impianto della sua scrittura. Il libro è utile, e farà senza dubbio riflettere: proprio perché si lascerà leggere nella sua forma piana, dove i problemi hanno fatto in tempo a trasformarsi in cose, in parole.
FERNANDO GIOVIALE

JENA PLISSKEN E IL PARGOLO DI BUONA FAMIGLIA: UN BRANO DA "SE AVESSI PREVISTO TUTTO QUESTO"

"Un pub, uno dei tanti. Solita scenografia, luci soffuse, avventori giovani o giovanili. Carlo sente già spegnersi tutti i macchinari biologici che lo connotano essere razionale e di buona famiglia. Al che medita già di strozzarsi il fegato con bourbon o vodka. Faustino naviga con lo sguardo all’interno degli sguardi altrui, cercandovi un amico, un’ammiratrice, un manager radiofonico, uno spacciatore, chissà. La musica propina Michael Jackson d’annata. Faustino dice a Carlo di sedersi ad un tavolo, ché lui fa un giro, poi torna. Carlo si accuccia, ascolta quel che resta del brano primi anni Ottanta di Michael Jackson; poi, anziché gli Spandau Ballet o i Duran Duran che a quel punto sembrano inevitabili, salta fuori una canzone dei Soundgarden. 
Faustino torna poco dopo, in compagnia di un maxiganzo formato Big Jim, a sua volta in compagnia di topolona mora e mediterranea con bocca grande abbastanza per reclamare Fellatio Et Ingoio.
Si siedono tutti attorno al tavolo. Faustino conclude un discorso già avviato di cui Carlo non capisce una virgola, poi espleta le presentazioni con sensibile ritardo. Ganzo e topolona vengono all’istante battezzati come Walter e Gioia. Lui si proclama proprietario di un paio di discoteche suburbane, lei si proclama muta come un pesce.
- E te che fai di bello? - chiede Walter.
- Filosofia.
- Nientedimeno. Anche Gioia.
- Ma no.
- Indirizzo filosofico - dice Gioia. Carlo la guarda meglio: il trucco è pesantissimo. Sotto lo strato artificiale si cela una quasi trentenne. Walter dimostra venticinque anni, più o meno. Senza trucco.
- Anch’io - dice Carlo. - Indirizzo Filosofico. Primo anno.
- Ottavo anno - dice con candore Gioia. - Ho dato otto materie - aggiunge orgogliosa.
- Una media perfetta - gongola Walter. - Una media con la media del venticinque, una media di un esame l’anno, una media in media con le altre medie. Sai, in media ci si sta...
A quel punto anche Walter ha perso il filo. Cambia discorso. - Vai mai in discoteca?
- Mai - ammette Carlo.
Walter non riesce a contenere una smorfia schifata. - Oggi è il mio compleanno.
- Auguri. Io non festeggio mai il mio compleanno.
- Perché, io ho l’aria di un festeggiante festeggiato?
- No.
- Ecco.
Pausa letale.
Faustino prende l’iniziativa e schiocca le dita a una cameriera. Carlo si fa portare una birra alla spina. Miracolo. Ha evitato i superalcolici. Non ha del tutto perso la propria responsabilità. Bravo ragazzo, proprio bravo. Un po’ allucinato.
(...)
Realtà: Walter. Che dice: - Comunque, per stasera sono riuscito a staccare la spina, nel senso che ho mandato tutto affanculo, le discoteche, la vita notturna, per... per stare con Gioia.
- Carino - dice lei, svenevole.
- E con Gioia ci stai con gioia? - chiede Faustino, con aria talmente seria da far sospettare che il giochino di parole sia del tutto involontario.
Walter risponde con una domanda, rivolta però a Gioia: - Mi dai un po’ di coca?
Silenzio letale.
Walter le sprofonda la mano tra le tette, inserendo qualcosa di indefinito ma di facilmente definibile nel décolleté. Lei parte verso la toilette e la mano di Walter la segue.
- È il mio compleanno - dice lui.
- Vai pure a festeggiare - dice Faustino. - Auguri.

Altro pub. Questo ha una veste fantascientifica. Tutti i rottami di questo mondo rottamaio sono combinati assieme e riverniciati con lo stesso color argento dell’Uomo di Latta del Mago di Oz, in un bricolage che nell’insieme fa il suo bell’effetto. Bell’effetto di minchia.
- Se vedi un tipo combinato come Jena Plissken, compreso la benda da pirata sull’occhio destro, dimmelo - dice Faustino.
Non lo si vede da nessuna parte. La musica è un megamix di Molella con tutte le megastronzate dance del momento che tra un anno o due saranno state dimenticate persino da chi le ha realizzate. Da un cesso (ci si reca nei pub per i loro cessi, a quanto pare) esce Kurt Russell in persona, ma piuttosto basso e con meno muscoli. Faustino e Jena si scambiano pacche sulle spalle, poi parlano tra di loro. Ma che cazzo ci sta a fare qui Carlo?
- Ti presento un mio vecchio amico. Si chiama Carlo.
- Io mi chiamo Jena - dice, serio. Stringe la mano di Carlo, tramutandola in un moncherino dolorante. - Faccio il puparo della notte, metto dischi e mi rompo il cazzo. Te che fai?
- Mi rompo il cazzo e basta - dice Carlo, cercando di adeguarsi al tono dell’ambiente.
Jena apprezza la battuta. Jena ridens.
Poco dopo i tre stanno seduti in un tavolino. La musica, un megamix di Fargetta, copre le loro parole. Si segue il labiale.
- Così fai lo scrittore? - chiede Jena.
- Ci provo - risponde Carlo.
- Il mio scrittore preferito è Clive Barker. Hai letto Schiavi dell’inferno? Ha un inizio meraviglioso, c’è questo Frank che apre una scatoletta magica e ne escono i Supplizianti. E sai che fanno?
- Lo suppliziano?
- Esatto! E Jacqueline Ess? Che racconto, ragazzi. C’è questa che ti fa venire un arrapo bestiale. A guardarti ti vedo come seguace di Stephen King.
- Ho letto qualcosa, mi piace.
- Ci avrei messo l’uccello sul fuoco. Stephen King scrive horror per pargoli di buona famiglia. Tu sei un pargolo di buona famiglia, si direbbe.
- Se lo dici tu!
Jena guarda Carlo dritto negli occhi e dice: - Li ucciderei tutti, i pargoli di buona famiglia.

Disagio."

da "SE AVESSI PREVISTO TUTTO QUESTO", pp. 136-139.