Anche se la narrativa è la mia passione più grande, le soddisfazioni maggiori mi sono giunte grazie a un saggio scaturito da una mia tesi di laurea in Storia e Critica del Cinema, edito da Bastogi nel 2005 e intitolato "Nient'altro che un sogno-Pasolini e la Trilogia della vita".
Il libro parte dagli ultimi
istanti di vita di Pasolini e dalla sua “Abiura della Trilogia della vita”, per
poi tornare a quando Pasolini iniziò a lavorare come sceneggiatore, approdando
nel 1971 ad adattare il capolavoro di Boccaccio, quel “Decameron” popolare,
sensuale, vitalistico, che sarebbe stato il primo capitolo di una trilogia (comprendente
“I racconti di Canterbury” e “Il fiore delle Mille e una notte”) destinata a un enorme successo di pubblico e a un non sempre puntuale riconoscimento della
critica.
Il libro è la ricostruzione “linguistica”
del lungo viaggio che Pasolini verosimilmente intraprese per giungere alla
creazione di quei tre film, resa possibile dalla pubblicazione delle sceneggiature originali. Sceneggiature che hanno
svelato non pochi segreti e retroscena del “laboratorio” cinematografico di
Pasolini.
Con grande prudenza, alla ricerca
di un equilibrio tra leggibilità e scientificità, aiutato dalla mia esperienza
di romanziere, di sceneggiatore e di regista, e sicuramente incoraggiato dal Premio Tindari 2004 per la critica cinematografica, nel
trentennale della morte di Pasolini ho voluto riproporre problematiche antiche e
fornire nuovi e suggestivi stimoli non solo per i pasoliniani della prima ora
ma anche per coloro che volessero soltanto andare un po’ più in là nella
conoscenza di questo grande poeta, scrittore e regista.
Con particolare affetto ricordo la prefazione firmata dal docente Fernando Gioviale dell'Università di Catania, il principale responsabile della mia passione per Pasolini: nel mio ultimo romanzo non sono stato tenero con la casta dei professori catanesi, ma lui, Stefania Rimini (che bello il suo libro su Kieslowski edito da Liguori, "L'etica dello sguardo"), il suo amico e collega Antonio Di Grado e pochi, pochissimi altri tra docenti, assistenti e ricercatori, rimangono tra i miei migliori ricordi di quell'epoca legati al personale accademico. Voglio riproporre in questo blog il testo integrale della sua prefazione:
“Trilogia della vita”: sembra
un tempo lontano e quasi favoloso, quello che vedeva Pasolini cimentarsi con
tre opere somme dell’immaginario novellistico d’Occidente e d’Oriente,
cavandone Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una notte (1974).
E’ come se l’estremo cimento di Salò o le
120 giornate di Sodoma (1975), maledettamente postumo, venisse a gettare
un’ombra di mortuario raggelamento su quanto il regista aveva fatto prima, e
segnatamente su quei tre film che, proprio perché così diversi, finivano con
l’acquisire contorni remoti e fiabeschi. Un’età di possibile felicità inventiva
e creativa, e forse esistenziale, tramontava con quei testi, testamenti
provvisori destinati ad essere sopravanzati dal testamento definitivo. Non si
trattava, in realtà, di testamenti; meno che mai per Salò, che occupava Pasolini in un 1975 tutt’altro che “ultimo”, se
l’artista meditava, tra varie altre cose, un film con Eduardo De Filippo,
mentre dedicava idee, energie, scrittura al megaromanzo Petrolio, concepito come un’autentica summa della sua opera e lasciato allo stato di ampio, articolato,
ma pur sempre provvisorio frammento (pubblicato, con qualche azzardo, da
Einaudi e confluito poi nei Meridiani Mondadori). Ma non dell’estremo cimento
di Sodoma dobbiamo parlare: che per noi resta un alto impegno didattico di
gelido sarcasmo dedicato ai giovani, metaforicamente còlti, allora, in
travestimenti nazifascisti, più facilmente ravvisabili, oggi (ma puntualmente
prefigurati dal Pasolini polemista e “luterano”), in una serpeggiante nevrosi
di massa da cui sgorgano i mostri orrendi del quotidiano, i crimini
dell’assurdo familiare: frutto, insieme, del dorato inferno consumistico e
della falsa coscienza collettiva, quella che ama credere in un Occidente
finalmente libero dalla minaccia comunista e dunque più sagace e sereno nel
gestire le proprie forze: e perfino più devoto, più religioso!
A Salò, d’altra parte, Pasolini era giunto
“abiurando” dalla “Trilogia della vita”, ovvero rinnegandone i presupposti dopo
averli lungamente evocati. Bisognava sgombrare il terreno, ormai, da ogni
superstite terzomondismo come alibi morale dell’Occidente: il mito dei popoli
vergini e lontani - fossero la Napoli poeticamente dilatata e riassunta nel Decameron, l’operosa e favoleggiata
Inghilterra già di Chaucer, il labirintico oriente da mille e una notte - non
era più praticabile; e Pasolini ancora non sapeva (o poteva solo intuirlo da
situazioni più mature, come in Francia) che quell’Oriente già doratamente
fiabesco si apprestava ad invadere un Occidente decrepito e senza voglia di
sopravvivere, a ricolonizzarlo con le sue giovani energie di lavoro ma anche ad
inquinarne l’orgoglio residuo e ad attizzarne fondi lungamente sopiti
d’intolleranza. Questo discorso, a lui, pareva non importare: di più lo
intrigava e turbava la troppo violenta contraddizione tra quei corpi innocenti
di un mondo aurorale e precapitalistico (quello, appunto, sospeso tra una
Napoli picaresca, pseudo-boccaccesca, e un Islam trionfante nella sua
millenaria, a suo modo saggia alternanza di straripante ricchezza e collettiva
miseria) e l’abbrutimento interiore che gli pareva di dover cogliere
nell’appiattimento di un neocapitalismo del tutto privo d’anima,
nell’omologazione imperante di una condizione giovanile munita di un benessere
di massa senza precedenti, ma infine senza progetto, senza felicità. Per alcuni
anni - quelli, “felici”, della trilogia - Pasolini s’era rifugiato nel mito
solare dei corpi edonisticamente ritratti e contemplati; ma pure lì (vedi Canterbury) s’insinuava il tema
misterioso della morte, e sulla morte, quella di un Occidente senza più
razionalità morale, si risvegliava il furente, gelido, “umoristico” e
amarissimo fustigatore di Salò.
Non è detto che Luca Raimondi sia voluto
partire da premesse siffatte, per scrivere il suo libro sulla “Trilogia della
vita”; ma le aveva in qualche misura dentro, a volte con felice implicitezza, a
volte con più ragionata motivazione; infatti il suo non vuol essere un discorso
ideologico ma, piuttosto, linguistico,
ovvero di piena comprensione dell’intero percorso di linguaggio che Pasolini
compie in quei tre film. E tuttavia - come Raimondi ben sa - il linguaggio
pasoliniano è un insieme sincretico di umori e idee, passioni e ragioni,
improvvisazioni e riflessioni, per giungere a una forma che - discutibile sempre, ignorabile mai - si fa
irresistibilmente sua: non
condividessimo un solo passaggio di quelle storie raccontate (viceversa così
dense di riposte o esibite arditezze espressive), ci resterebbe sempre
l’indistinta consapevolezza che quel linguaggio è solo pasoliniano: irritante o
irrestibile, è inconfondibilmente suo, invenzione fortunatamente impastata di
immaginismo affabulatorio e di tensione raziocinante. Nella “Trilogia”,
l’affabulazione prevale sul raziocinio, i colori sulle parole, la gioia sul
dolore: è un altro Pasolini, a quello di prima e a quello ultimo
inestricabilmente legato, ma qui felicemente coincidente in se stesso, di là
dagli sbalzi di umore e di tenuta narrativa. Raimondi vi si è calato con
candore smaliziato, con gusto del vedere e del raccontare; e ce ne restituisce
un’immagine che, tra le mille proposteci in questi anni, non è la meno
convincente. E poi, da narratore, ha cercato di farcela amare nell’impianto
della sua scrittura. Il libro è utile, e farà senza dubbio riflettere: proprio
perché si lascerà leggere nella sua forma piana, dove i problemi hanno fatto in
tempo a trasformarsi in cose, in parole.
FERNANDO GIOVIALE
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