domenica 22 dicembre 2013

A GRATOSOGLIO COL BENTELAN: UN RACCONTO PUBBLICATO SU "OSSOBOOK"

In occasione del Natale, un mio pensiero particolare è rivolto ai bambini e ai ragazzi abbandonati o sottratti alle famiglie, quei minori ospitati dai centri di accoglienza e di cura come quello che rievoco in questo racconto pubblicato qualche tempo fa nel numero 6 di "Ossobook", rivista digitale milanese fondata da Tommaso Labranca, che mi ha personalmente invitato a contribuire a "Fuorimilano". Una rubrica in cui - in ogni numero - uno scrittore o un blogger forestiero racconta la "sua" Milano. Io ho contribuito con questo resoconto autobiografico il cui titolo di lavorazione era "A Gratosoglio col Bentelan". 
Buona lettura e auguri di buon Natale!

"Catania la chiamavano, negli anni’90, “la Seattle del sud Italia” per via della sua vivace scena musicale. Prima ancora, per tutti era la “Milano del sud”, polo commerciale e affaristico della Trinacria. Negli anni Zero, Catania non corrispondeva più a queste definizioni, se mai davvero c’era stato qualcosa in comune con Seattle o con Milano. E neanche Milano, quando mi trovai a visitarla per la prima volta, c’entrava niente con la Milano che mi ero immaginato, che mi avevano decantato e a volte descritto con tratti talmente infernali da meritarsi incisioni di Gustave Dorè. 
Mi avevano offerto un posto di lavoro a progetto. Marco Biagi era stato ucciso esattamente due anni prima e io scoprivo, per la prima volta, cosa diavolo erano questi contratti a progetto. Una mezza fregatura, ma che ve lo dico a fare?
Mi ritrovai così in quella che più che una metropoli sembrava una città di provincia, abbastanza ordinata (almeno rispetto alla qasba catanese) e dov’era facile muoversi, con l’unica differenza che nessuno ti guardava in faccia. In quei giorni era immersa in una foschia che non mi permetteva mai di vedere il blu del cielo, ma ero preparato a quell’atmosfera: a Catania a marzo il cielo si vedeva eccome, ma quella era Milano, bisognava abituarsi.
Stavo in una topaia di pensione, frequentata solo da extracomunitari, con un unico, lurido, bagno in comune per un intero piano.
Già dal secondo giorno di permanenza avevo cominciato a grattarmi.
Veramente avevo cominciato ad avere un po’ di fastidio già nel treno, ma in quella stamberga mi era esplosa una dermatite che progressivamente si andava aggravando. Cominciai a inghiottire pillole antistaminiche. Il fastidio si placava a sprazzi, le macchie sulla pelle avvampavano o si sbiadivano a piacere. Apparivano tumide soprattutto quando stavo al telefono con la mia fidanzata che, a Catania, era alle prese con una tesi su Giorgio Bassani e la sua misconosciuta produzione saggistica raccolta in “Di là dal cuore”. Che io stessi a oltre milletrecento chilometri di distanza era per lei un dettaglio secondario, purché trovassi il tempo di correggere il suo fondamentale capitolo 4. Per me, quel dettaglio era di vitale importanza. Quando la conversazione terminava, piangevo ascoltando Fabio Concato: per il mio cd player avevo selezionato album di autori rigorosamente milanesi, con la speranza di integrarmi presto e bene. Ma rivolevo la mia vita catanese, la mia fidanzata. Ero uno smidollato. Me lo ripetevo in continuazione. Uno smidollato.
Poi cominciai a lavorare come educatore professionale nella cooperativa per cui ero venuto a Milano, un centro di accoglienza per minori tra i palazzoni del quartiere dormitorio di Gratosoglio, che tutti mi descrivevano come una specie di Bronx ma che rispetto a San Cristoforo o a Librino mi sembrava il Parco della Vittoria del Monopoli.
Al centro di accoglienza sentivo freddo, la cameretta che mi avevano assegnato era piccola e polverosa e per di più la sera si mangiava poco. Un piattino di lenticchie o bastoncini Findus. Si mangiava quello che mangiavano i bambini, nelle stesse identiche porzioni, ma io pesavo almeno quaranta chili in più. Una sera toccò a me far addormentare una bambina con gli occhi azzurri, i capelli biondi, lisci. Figlia di immigrati dell’est, violenti, molestatori, in carcere a San Vittore. Le lessi una fiaba: lo feci male, con il tono monocorde, la voce incerta, perché pensavo alla mia fidanzata della mia stessa età, mora e dai capelli ricci, chissà in quel momento che faceva e con chi si trovava.
Quei bambini, soprattutto quelle bambine, mi mettevano a disagio, mi trasmettevano inquietudine. Ero fresco di laurea in Scienze dell’Educazione e avevo svolto solo un tirocinio in una casa famiglia dove alloggiavano maschietti aggressivi, il “vedi chi te la ficca” sempre pronto ad esploderti in faccia come una mina antiuomo. Non ero pronto per calarmi nelle storie di fatine del cazzo da sussurrare con voce vellutata nelle orecchie di bambine deprivate.
Il prurito tornò. Passai al Bentelan, ma neanche il cortisone ci poteva fare qualcosa. Il problema poteva avere origini psicosomatiche.
Di lì a poco dissi basta e me ne tornai in Sicilia, abbandonando quel posto di lavoro senza neanche finire il breve periodo di prova.
Una sconfitta che ancora oggi mi pesa addosso come un macigno.
Non vivo più a Catania bensì a Siracusa, pubblico romanzi, ho un figlio piccolo, lavoro con i bambini disabili e penso che – tutto sommato – Milano non era così male, perché c’erano la videoteca-libreria Bloodbuster, la Pinacoteca di Brera, lo stadio di San Siro, un fottìo di case editrici e una bambina bionda a cui leggere le fiabe per farla addormentare."

Il link dell'intero numero 6 di "Ossobook" che contiene il mio racconto è disponibile a quest'indirizzo:
 http://issuu.com/ossobook/docs/ossobook062013?e=6016151/4058624

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